Menu di scelta rapida
Taille police:
News et évènements

Interviste a Ilva Fabiani e Jean-Paul Didierlaurent

01.11.2015

Le lunghe notti di Anna Alzutz

I Comitati di Lettura del “Premio Città di Cuneo per il Primo Romanzo” hanno individuato quale vincitore dell’edizione 2014-2015 Le lunghe notti di Anna Alrutz (Feltrinelli, 2014), opera d’esordio di Ilva Fabiani, docente di Lingua Italiana all’Università di Gottinga, in Germania. Questo libro tratta di una poco nota pratica messa in atto dal potere nazionalsocialista, la sterilizzazione delle donne considerate impure poiché affette da patologie di varia natura, sia fisiche sia psichiatriche. Ilva Fabiani ha deciso di narrare la vicenda di una giovane infermiera, Anna Alrutz, dedita a mettere in atto questa pratica violenta e barbara. L’affresco che emerge da questa potente opera prima è quello di una donna vinta dalle tragiche derive autoritarie degli anni Venti e Trenta del Novecento, ma anche quello di un intero popolo costretto a confrontarsi con una perversa ideologia perfezionistica che lo segnò in maniera irreversibile. Ilva Fabiani ha scritto un romanzo che è un invito alla memoria, all’obbligo morale di non dimenticare che gli uomini di oggi hanno. E che spesso dimenticano di avere.

Dove è scaturita l’idea del personaggio di Anna Alrutz?
Il luogo in cui lavoro, l'istituto di filologia romanza, era un tempo la clinica ginecologica di un vasto areale ospedaliero nel quale venivano effettuate le sterilizzazioni nel periodo che va dal 1934 al 1945. Stavo svolgendo delle ricerche di tipo storico, ma presto il tema mi ha preso la mano: mi ha commosso leggere le testimonianze di donne sterilizzate, l'affronto che è stato fatto al loro corpo. Così è nata una storia, narrata però non dalla prospettiva delle vittime, ma da quella dei carnefici, delle altre donne, quelle che partecipavano come infermiere a queste operazioni. Come detto nella postilla, il nome di Anna Alrutz proviene da un elenco telefonico di quel tempo: una donna con questo nome è vissuta negli anni Trenta nell’appartamento in cui io abito ora. Ma di lei non so nulla, se non quello che ho inventato. Proprio all’inizio della scrittura è spuntata fuori la frase: “Le mie notti sono lunghe perché lavoro”, frase con cui inizia il romanzo e che è rimasta invariata in tutte le stesure. Da lì ha preso il via una storia che non sapevo di voler scrivere.

Anna diventa una braune Schwester, un’infermiera il cui compito è quello di sterilizzare donne affette da patologie fisiche e mentali che potrebbero dare alla luce neonati imperfetti, contrari perciò alle volontà perfezionistiche del Führer. A pagina 181 si legge che “il sogno del Führer era di fare della Germania una compagine vigorosa e priva di debolezze, il risultato di una selezione accurata di individui sani”. Come è venuta a conoscenza del lavoro di queste infermiere?
Durante le ricerche mi sono imbattuta in storie di medici, più tardi processati per i crimini commessi, ma anche di infermiere. Il concetto di braune Schwester è storicamente piuttosto ampio: con questo termine si indicavano sia le infermiere che durante gli scontri tra fazioni politiche avverse si prendevano cura dei militari feriti sia quelle che frequentarono la scuola per infermiere nazionalsocialiste, per esempio ad Hannover e Dresda, sia in generale tutte quelle infermiere che aderivano con convinzione all'ideologia hitleriana. Ho trovato diverse testimonianze di infermiere che hanno suscitato il mio interesse perché si trattava di donne che, o per convinzione politica o per dovere professionale, assistevano alle operazioni di sterilizzazione, “amputavano” altre donne. La domanda che mi sono posta è stata come facevano ad azzerare questa empatia corporale che noi avvertiamo per un’altra donna e violarne il corpo. Ho cercato allora, attraverso la narrazione, di analizzare e ricomporre questo dissidio intimo che, sono sicura, più di una donna avrà avvertito – almeno stando alle testimonianze. Inutile sottolineare che l’indottrinamento massiccio nella nuova scuola per infermiere ha giocato un ruolo fondamentale.

Anna nasce nel 1907 da una famiglia benestante, di sentimenti non certo antisemiti e nazisti. Perché la protagonista decide, dopo la morte della sorella Hedwin e l’abbandono del mondo accademico, di aderire alle idee di Hitler?
Capire il perché profondo dell'adesione di Anna al Nazionalsocialismo è un compito molto difficile. Esistono a mio avviso fattori esteriori come la crisi economica nella quale la Germania era sprofondata negli anni Venti, le fratture politico-sociali che provocavano di continuo scontri fra operai e forze para militari, la sensazione che aleggiava di dover ricorrere a misure estreme per rimettere in ordine una società alla deriva. Anna sicuramente crede in questa idea di ordine, ma c’è dell'altro: l’ordine sociale corrisponde ad un ordine interiore che lei, dopo la delusione amorosa e la morte della sorella, sta disperatamente cercando. Un mondo intatto, fatto di regole chiare, di un radicato manicheismo sociale che concepiva un male – gli ebrei, ad esempio – distinguibile e facilmente additabile. In un punto del libro si dice che “il Nazionalsocialismo era un innesto effettuato su un arbusto perfettamente compatibile”. Lei, Anna, era questo arbusto che ha accolto l’innesto delle idee politiche perché profondamente affine ad esso.

Quale è la linea di demarcazione che separa la ricerca medica dalla follia totalitaria?
Una linea di demarcazione occorre ogni volta cercarla all’interno di un consenso generale che permetta sempre la libertà di autodeterminazione del singolo. Ogni società elabora una sua idea di salute, di malattia e quindi anche di cura. Ho letto recentemente che alcuni studiosi olandesi si sono recati in Africa a studiare una tribù nella quale le donne sembravano non avere disturbi della menopausa. Si sono accorti in breve tempo che la loro lingua non conteneva una parola corrispondente a “menopausa”. Non esisteva un concetto normizzato per questa fase della vita, né una sintomatologia e quindi neanche dei sintomi! Per questo motivo sono fermamente convinta che occorre assolutamente fare attenzione, con tutte le parti in causa, all’idea di salute e benessere che una società elabora perché da essa dipende fortemente la concezione della malattia e della cura medica. Se una società ha modelli disumani, si pensi al concetto di arianità per la quale gli insegnanti di biologia misuravano il cranio ai propri allievi, avrà anche una medicina disumana.

“Non esisto più, devo farmene una ragione. Non ho più né un peso né un corpo”. La narrazione è portata avanti dallo spirito di Anna, che è tragicamente scomparsa nel 1935, a undici giorni dal suo ventottesimo compleanno. Quale motivazione l’ha spinta a scegliere questo particolare punto di vista?
L’ho immaginata così perché volevo un punto di vista a posteriori sulla sua vita. Questo suo pentimento, allo stesso tempo intenso e tardivo, riscrive tutta la sua vita come una lunga illusione e rende il momento della morte quasi eterno: non ha avuto abbastanza tempo per pentirsi e rimediare ai suoi errori, per questo la sua anima vaga ancora per le corsie della clinica e racconta, a chi vuole ascoltare, la sua pena. Il pentimento spiega la prospettiva da cui lei guarda agli episodi della sua vita, chiedendosi ogni volta come è stato possibile, piano, piano, che la sua anima fosse permeata da un’idea di distruzione. Ho immaginato un pentimento così forte da perpetuarsi nell’aldilà, un aldilà che però diventa un limbo, una sorta di luogo di espiazione. La perdita del corpo nell’aldilà avviene quasi simmetricamente alla perdita dell’anima in questa vita.

Il romanzo si focalizza molto sull’età giovanile. Le pulsioni adolescenziali spingono Anna ad avventurarsi in luoghi che le erano apparentemente distanti: il mondo universitario, i circoli frequentati dai militari, la casa di un pastore protestante… Quanto incide l’irrazionalità nel corso della vita?
Non amo dividere le nostre scelte in razionali o irrazionali: un’azione può essere razionale e irrazionale allo stesso tempo a seconda dei punti di vista. L’esempio di Anna a questo proposito è lampante: purtroppo era una scelta razionale per una giovane donna di quel tempo aderire a quelle idee che noi oggi, con il senno di poi, chiamiamo follia pura. Era razionale a quel tempo pensare che un malato di mente costasse allo stato tanto quanto un’intera famiglia geneticamente sana. Chiamiamola una razionalità pervertita, disumana, inaccettabile, ma all’interno del sistema che l’aveva partorita era coerente. Non è la razionalità a salvare Anna Alrutz, alla fine, ma qualcosa di più profondo, di più intimo, di viscerale. Possiamo provare a chiamarla “pietà” o “solidarietà fra esseri umani”, o anche semplicemente “empatia”. Il risveglio inizia nel momento in cui Anna avverte dentro di sé una sorta di nausea per quello che sta facendo: il suo corpo si ribella prima ancora che possa farlo la sua mente. La razionalità si risveglia più tardi e organizza il sabotaggio.

Le scelte di Willi, il fratello più piccolo di Anna, lo portano a vivere un’altra esistenza, caratterizzata da un radicale rifiuto del nazismo. Lo spirito di Anna lo vede combattere in Russia e costruirsi un futuro sereno in Olanda. La figura di Willi rappresenta ciò che Anna avrebbe potuto ma che non ha voluto essere?
In un certo senso sì. Willi non ha perso la sua fanciullezza sacrificandola sull’altare dell’ideologia. Willi ha fin da ragazzo un buon senso che lo spinge naturalmente all’autonomia di pensiero, all’arte, al gioco e quindi è in un certo senso “immune” alle dittature. Anna invece no: con il suo temperamento autoritario e a causa anche della delusione subita da Heinrich, si stacca violentemente dalla sua infanzia, dalla bambina altruista e vivace che era, e si scaraventa in un mondo degli adulti dominato dalle asprezze politiche e sociali. Con la sua schiettezza, Willi ricorda ad Anna che un altro modo di pensare e di sentire è sempre possibile.

Anna, Frida, Hedwin, Elisa, Wilhelmine… Il suo romanzo è caratterizzato da complesse figure femminili che affrontano in maniera differente il rapporto con il totalitarismo. Sono le donne le vere protagoniste della Storia?
Diciamo che nel corso della Storia abbiamo fatto parlare troppo poco le donne che avrebbero potuto raccontarcela. Abbiamo letto e discusso quasi esclusivamente i racconti degli uomini, solo negli ultimi secoli vi abbiamo aggiunto la voce delle donne, il loro sguardo sulle cose. Per cui credo che la Storia non abbia protagonisti maggiori o minori, ma semplicemente tante voci, maschili, femminili o non definibili per genere, che vanno integrate fra di loro per giungere a una comprensione più differenziata del passato e della vita. Le faccio un esempio: leggendo il mirabile saggio di Wendy Lower Le furie di Hitler (Einaudi, 2013) sul comportamento delle donne naziste nei territori occupati, non si può non essere sconvolti dalla violenza e brutalità delle loro azioni. Allo stesso tempo, se si affronta la lettura de Il rogo di Berlino di Helga Schneider (Adelphi, 1998) si soffre assieme alle donne tedesche segregate nei bunker durante la guerra, donne e bambine brutalmente violentate a loro volta dai soldati dell’Armata Rossa. Questo cambio di prospettiva aiuta a comprendere l’orrore della guerra in tutte le sue sfumature, anche quando questo può risultare doloroso e scomodo.

I suoi studi l’hanno portata a lavorare e a vivere in Germania. Quale è il rapporto del popolo tedesco con il recente passato nazista?
Secondo me molto complesso: un lavoro enorme di revisione e rielaborazione del passato è stato fatto e continua a essere svolto, quasi quotidianamente. Tuttavia molto resta ancora da fare, soprattutto nella ex DDR dove è preoccupante la rinascita di movimenti neonazisti e xenofobi. La crisi economica non fa altro che acuire l’insicurezza e la chiusura verso l’esterno. Io personalmente avverto nei tedeschi molta vergogna, molta paura del passato e una volontà quasi sfibrante di voler dimostrare al mondo intero che dire Germania non significa solo Hitler e Nazismo, ma anche tutto il patrimonio letterario, musicale e filosofico che questa Nazione ha dato al mondo intero. È come se Hitler si fosse appropriato di tutto: dei pensieri, delle parole, dei colori. Ancora oggi, ogni cosa deve fare i conti con quel passato prima di poter esistere.

Le lunghe notti di Anna Alrutz è inizialmente apparso su ilmiolibro.it, sito dedicato al self-publishing. Quali emozioni prova un’autrice esordiente a ricevere una proposta di pubblicazione da un importante gruppo editoriale quale è Feltrinelli?
Incredulità, euforia e sicuramente tanta ansia! Avere a che fare con una casa editrice così rinomata per un esordiente è qualcosa che può sconvolgere, alla quale non si è mai preparati, né a venti anni né a quaranta. Poi l’euforia diventa voglia di fare un buon lavoro e ci si rende conto di quanta concentrazione e professionalità occorre per trasformare una storia in un libro: il passaggio da lettore ad autore è entusiasmante e faticoso allo stesso tempo.

Ha già in mente progetti letterari per il suo futuro?
Sì, sto scrivendo un romanzo a due voci, ambientato in due epoche e in due Paesi diversi. Una sorta di dialogo con un finale aperto a diverse interpretazioni. Ma per scaramanzia, non racconterò di più.

(intervista di Jacopo Giraudo)

 

Un amore di carta

Le liseur di 6h27, apparso in italiano con il meno efficace titolo Un amore di carta (Rizzoli, 2015), è il romanzo d’esordio di Jean-Paul Didierlaurent, affermato autore francese di racconti. Questa opera prima è un piccolo capolavoro, un volumetto capace di regalare momenti di lettura piacevoli e profondi allo stesso tempo. Il protagonista del romanzo è Guylain Vignolles, un uomo con un lavoro umiliante e tremendo, un semplice operaio con una tranquilla abitudine quotidiana: la lettura ad alta voce del brano di un libro sul treno delle 6.27 che lo conduce in fabbrica. Non si può rimanere indifferenti dal fascino letterario di questo eroe comune, un personaggio dalle innumerevoli sfumature che richiama le tradizioni letterarie più alte. Una volta che avrete richiuso e riposto nella vostra personale biblioteca Un amore di carta, vi ricorderete che Guylain non è l’ennesimo abitante del vasto oceano dei romanzi, ma un amico reale sul quale poter fare riferimento nei momenti di bisogno. Basterà riprendere in mano questo libro e soffermarsi su qualche riga. L’effetto che ne riceverete sarà straordinariamente terapeutico.

Dove è nato il personaggio di Guylain Vignolles?
Guylain Vignolles, il lettore, è nato un po’ più di dodici anni fa, quando partecipai a un concorso di racconti che aveva come tema il libro. Avevo allora immaginato questo personaggio, un operaio addetto a una macchina trituratrice di volumi che, per sopportare questo lavoro di distruzione da lui perpetrato, salvava ogni giorno dal massacro un libro per poi leggerne un brano ad alta voce ai pendolari del treno che dalla periferia lo portava in fabbrica. Da quel momento, questo personaggio non mi aveva più lasciato e ha continuato a tormentarmi per molti anni, reclamando una vita un poco più lunga di quella del tempo di un singolo racconto. Stranamente, io credo di avere praticamente subito avuto la certezza che, un giorno o l’altro, lui e io avremmo vissuto una gran bella avventura.

Guylain lavora come operaio in un’azienda che si occupa di distruggere i libri. È addetto al Zerstor 500, “La Cosa”, una macchina immensa che trita i volumi invenduti. Quale è stata la Sua fonte di ispirazione nella creazione de “La Cosa”?
Mi sono divertito enormemente a costruire mentalmente questa “Cosa” terrificante, avevo una forte di volontà di farne un personaggio a tutti gli effetti. La macchina trituratrice è il mostro della storia, un mostro brutto, riprovevole, maleodorante, avido, con un colore e un nome guerrieri e che, inoltre, è dotato di un’intelligenza propria. Nel romanzo, non è la macchina a essere al servizio degli uomini, ma piuttosto sono gli uomini al servizio di questo mostro di metallo capriccioso e insaziabile che non si accontenta mai della carta. In questa “Cosa” è possibile vedere sia La bestia umana di Zola, come è altrettanto possibile trovarvi la Christine di Stephen King. Le fonti d’ispirazione sono diverse e spesso incoscienti.

Guylain ha un lavoro subalterno e umiliante. Mente, perciò, alla madre sulla propria occupazione. Crede che provare vergogna del proprio lavoro possa essere il simbolo dell’alienazione dell’uomo?
Se Guylain mente a sua madre, lo fa soprattutto con la volontà di non deluderla e per lasciarla vivere nell’illusione di una propria realizzazione sociale e professionale. Questa menzogna è il solo modo che sia riuscito a trovare per proteggerla, tacendole tutta la sofferenza che vive quotidianamente affinché essa non si riversi tutta su di lei. Ciò che non è conosciuto non nuoce. Per quanto riguarda, invece, la vergogna, essa deriva spesso dallo sguardo altrui. E in una società dove tutto non è altro che apparenza, dove si viene giudicati dai vestiti, dall’automobile, dall’abitazione, il lavoro occupa una posizione di rilievo in questo riconoscimento sociale e può essere fonte di numerosi pregiudizi.

Julie, la donna che ha scritto i testi presenti sulla chiavetta USB trovata da Guylain sul treno, è l’unico personaggio completamente positivo del romanzo, nonché una delle poche apparizioni femminili. Perché ha deciso di conferire a Julie il ruolo di redentrice del protagonista?
Ciò che mi piace di Julie è il suo lato inaccessibile. Trascorre le sue giornate in un universo piastrellato, lontano dal mondo di sopra, una grande sacerdotessa immobile. È in qualche modo una Bella addormentata nel bosco che non si considera. Amo la sua freschezza, il suo atteggiamento positivo, la sua innocenza, elementi che la avvicinano a Cécile de France, spumeggiante e naturale. Amo lo sguardo che pone sul genere femminile, tanto tenero quanto cinico. È colei che, senza saperlo, riesce a far uscire Guylain dal proprio letargo e a condurlo finalmente a vivere. E cosa c’è di più bello che una ricerca amorosa per dare vita a un’esistenza che fino a quel punto era stata una delle più tristi?

La monotonia della vita è il tratto distintivo dell’esistenza di Guylain Vignolles. All’inizio del romanzo lo si può osservare mentre mette in atto gesti meccanici, ripetitivi e ossessivi; al termine della narrazione è un altro uomo, finalmente pronto a lasciarsi coinvolgere dagli eventi. Pensa che il Suo Guylain e il Pereira di Antonio Tabucchi potrebbero essere ottimi fratelli letterari?
Voglio essere onesto con Lei: non ho mai avuto occasione di leggere il romanzo di Antonio Tabucchi. Il percorso di Guylain va dall’ombra alla luce. Nel suo caso è possibile parlare di una vera nascita, più ancora che una resurrezione. Poco a poco va prendendo corpo con lo scorrere delle pagine, passando dall’invisibile al visibile. All’inizio, Guylain non esiste veramente se non per venti minuti al giorno, quei venti minuti trascorsi nel treno duranti i quali diventa il “lettore”. Questo esercizio di letture imposte che pratica per la sua redenzione resta malgrado tutto un atto solitario. Tutto cambierà nel momento in cui si troverà invitato a leggere ai Glycines. Guylain è atteso, amato. Questo è l’inizio della sua venuta al mondo. E poi compare la chiavetta USB che gli aprirà le porte della felicità, con questa ricerca insensata che gli permetterà finalmente di esistere pienamente.

Crede che il treno sia il mezzo di trasporto ideale per la lettura?
Poiché ho avuto modo di prenderlo molte volte nell’ultimo periodo, devo riconoscere che è molto piacevole leggere in treno. È davvero un grande privilegio poter viaggiare alle volte sia fisicamente sia mentalmente. C’è qualche cosa di meraviglioso nello spostarsi a più di trecento chilometri all’ora a bordo di un TGV, il corpo comodamente rilassato mentre lo spirito vagabonda, immerso in un libro per un altro viaggio. Per questo motivo, mi sento di dire che il treno fa parte di quei luoghi ideali per leggere.

Perché ha deciso di chiamare il pesce rosso di Guylain “Rouget de Lisle”, l’autore dell’inno nazionale francese?
L’idea di chiamare il pesce rosso di Guylain “Rouget de Lisle” deriva semplicemente da un gioco di parole tra rouget, nome comune di pesce, e il creatore della Marsigliese, Rouget de Lisle, un nome che mescola quindi l’ordinario alla posterità.

Lei è un prestigioso autore di racconti. Quale è il luogo ideale del racconto all’interno della Letteratura contemporanea?
A mio avviso, l’arte del racconto è troppo spesso insufficientemente messa in luce. Il racconto soffre di una mancanza evidente di considerazione, anche se si è soliti affermare che si tratta di un’arte complicata. La prima domanda che viene posta a un autore di racconti che ha successo è “A quando il romanzo?”, con questo sottointeso che, dal momento che si è in grado di scrivere racconti, ci si possa dedicare al romanzo. È come chiedere a uno sprinter di passare a correre la maratona ogni qualvolta vinca i 100 metri. Sogno un mondo nel quale all’autore di un romanzo d’esordio si domandi “A quanto i racconti?”. L’esercizio di concisione che rappresenta la scrittura di un racconto è appassionante. Non è né più né meno che artigianato. Bisogna creare una storia dove ogni parola conta davvero. “Suggerire molto con un numero limitato di parole” potrebbe essere un ottimo slogan pubblicitario per i racconti.

Lei ha partecipato all’ultima edizione del Festival du Premier Roman de Chambéry, manifestazione che, come il Premio Città di Cuneo per il Primo Romanzo, vuole essere un’occasione per far conoscere nuovi autori a un ampio pubblico. Quali romanzi di autori emergenti consiglierebbe di leggere?
È davvero un’ottima cosa che esistano festival letterari come quelli di Chambéry e di Cuneo, poiché talvolta i romanzi d’esordio mancano di visibilità. In quelle occasioni, per alcuni giorni essi sono in piena luce. Inoltre, queste manifestazioni offrono occasioni privilegiate di incontrare autori spesso promettenti. Tra i primi romanzi di Chambéry, ho fatto una bella scoperta nella persona di Gautier Battistella e del suo libro Un jeune homme prometteur (Grasset, 2014). Attualmente, sto scoprendo un’autrice dall’interessante stile letterario, Carole Martinez, che è stata insignita del Prix Goncourt des Lycéens  nel 2011 per il romanzo Du domaine des Murmures (Gallimard, 2011). Personalmente sono un devoto lettore dei libri di Grégoire Delacourt: il suo La première chose qu’on regarde (Éditions Jean-Claude Lattès, 2013) mi ha molto colpito.

Quali sono i Suoi progetti letterari futuri?
Il mio presente si divide in due. Dopo l’uscita del mio romanzo in formato tascabile per Folio a fine agosto, le Éditions du Diable Vauvert hanno pubblicato una mia raccolta di racconti all’inizio di settembre. Maccadam è un insieme variegato di undici storie, una compilazione di novelle scelte accuratamente per offrire ai lettori visioni disparate, undici vagoni su cui prendere posto per dirigersi verso destinazioni sconosciute. Attualmente sono impegnato nella realizzazione di un secondo romanzo, ma non dirò nulla di più per questo momento, poiché non bisogna mai rivelare le pagine di un manoscritto prima di averlo scritto!

(intervista di Jacopo Giraudo)