Sandro Bonvissuto è un “oste filosofo” che ha scritto una straordinaria opera d’esordio, Dentro, pubblicata da Einaudi nel 2012. Incontro l’autore al Circolo ‘l Caprissi poco prima che gli venga assegnato il “Premio Città di Cuneo per il Primo Romanzo”, in una stanza coperta da un piacevole soffitto affrescato e riecheggiante del lieve rumore provocato dai passi dei presenti sul parquet.
Dentro è il suo primo romanzo, è stato pubblicato da “Einaudi”, che oggi, 15 novembre 2013, festeggia ottant’anni di libri, ha riscontrato un ottimo successo di pubblico e di critica e ha vinto numerosi premi letterari, tra cui il “Premio Città di Cuneo per il Primo Romanzo”. Che cosa è cambiato in lei da quando è diven-tato uno scrittore a tutti gli effetti?
Niente, faccio la stessa vita di prima. Lavoro nel posto dove lavoravo prima e faccio il papà a tempo pieno, che è il lavoro più importante e che mi occupa più tempo. Sostan-zialmente, le ore della scrittura sono ore strappate al sonno e recuperate dalle ore nottur-ne. Il mio diventa così un non-lavoro, un qualcosa fatto per passione: invece di andare a dormire, si scrive quello che si può, perché nulla si deve. Nella logistica, non è cambiato nulla, a parte un po’ di stanchezza. Però il libro mi ha dato tante circostanze belle in giro per l’Italia, e spesso, come per questo festival, gemellato con l’omonimo festival di Chambery, in Savoia, anche fuori dai confini.
Dentro affronta un tema molto delicato, di cui in pochissimi si occupano: la situazione delle carceri italiane. Quale è la genesi del suo romanzo?
Quando ho avuto la comprensione che avrei fatto un libro per un grande editore, mi so-no chiesto che cosa possa fare uno scrittore per la società nella quale vive. È vero che l’arte vada svincolata del tutto da esigenze etiche o morali perché possa esprimersi pienamente, ma è giusto che lo scrittore dimostri di dialogare, di essere presente ed inse-rito nella società in cui vive. Mi sono chiesto “Che cosa posso fare? Quale è l’argomento più urgente?”. Secondo me, era questo. Quindi ho pensato che, anche se non posso risolvere io questo problema, se ne può parlare e volevo che fosse soltanto un’ennesima occasione di dialogo. Nel caso specifico, ho fatto un lavoro che, da un lato, ha la forza, la verità e l’immanenza della lettera del detenuto e, nel contempo, concede dei passaggi ad una riflessione sul carcere.
Cosa si potrebbe realmente fare per riportare le nostre carceri al livello della me-dia europea, in luce anche del recente messaggio inviato alle Camere dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano?
Che cosa vorranno fare è un discorso complesso. Credo che la sfida sia prendere la de-mocrazia e portarla anche dentro le carceri, perché sono zone franche, dove le cose non vanno come fuori.
Esattamente un anno fa, Ascanio Celestini presentava a Cuneo il suo Pro Patria, un romanzo che tratta gli stessi argomenti che affronta Dentro, anche se in una maniera onirica. Quale è la differenza essenziale tra le due opere?
Alla base c’è lo stesso desiderio di raggiungere per strade diverse lo stesso obiettivo, ammesso che se ne abbia uno. In questo caso, c’era. Ne abbiamo anche parlato in una circostanza a Mantova. La differenza risiede nella scrittura, esercitata nel modo più pros-simo ad ognuno. Lui ha scelto la dimensione onirica, io ho cercato di prendere il lettore e portarlo lì. Per questo motivo, ho fatto in modo che il protagonista della vicenda non avesse nemmeno un’identità che potesse essere in qualche modo per il lettore occasione di attribuire proprio ad una specifica identità il percorso del carcere. Io volevo che il lettore si riconoscesse in quell’io narrante. Se avessi attribuito un nome ed una qualche forma di identità, probabilmente il lettore si sarebbe in qualche modo allontanato dalla storia. La scelta che ha fatto Ascanio, probabilmente, è quella più suggestiva.
Dentro è un romanzo preciso, dettagliato, crudele e spietato a tratti, ma alquanto poetico in numerosi passaggi. In particolare, mi ha colpito come il protagonista si muova tra indecisione e fermezza nelle sue azioni. Quanto si ritrova in ciò che ha scritto?
Il libro parla di cose delle quali io ho esperienza personale, rapporti personali ed opinioni personali, però non parla di me. L’autore è diverso dal protagonista. Io probabilmente sarei stato meno cinico o più indeciso di lui in altre circostanze. Il legame fra il protago-nista e l’autore è meno solido di quello che si possa pensare.
Il suo romanzo è strutturato in tre parti: il carcere, l’adolescenza e la fanciullezza. Una vita a ritroso, dunque. Perché ha scelto di costruire Dentro in questo modo?
Non l’ho scelto io: Dentro era montato al contrario. Sono state le editor della “Einaudi” a consigliare questo montaggio cronologicamente inverso. Io fui contrario, ma ora penso che questa sia stata un’idea geniale, perché porta a galla lo spessore e l’importanza del primo lavoro che adesso è il primo, mentre prima era l’ultimo. L’uscita nel racconto dell’infanzia è bella, luminosa, radiosa, piena di luce, di sole e di speranza. L’uscita nel la-voro del carcere avrebbe notevolmente incupito l’ambito del libro che resta giustamente un libro di speranza. In questa stesura al contrario, il romanzo assume un andamento dantesco: l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso.
“Il muro non è fatto per agire sul tuo corpo; se non lo tocchi tu, lui non ti tocca. Non è una cosa che fa male, è un’idea che fa male”. Ci commenta questo breve passo che, a mio avviso, è una vera e propria poesia?
Quando il protagonista arriva al brano del muro, c’è uno dei momenti di riflessione in cui la prosa presta se stessa alla riflessione. Ciò che lui dice non è la verità del muro, so-no cose che lui pensa in una situazione fenomeno logicamente descritta, che è quella di un uomo che arriva sotto il muro del cortile di un carcere. Lui arriva dal muro e pensa “Lo vedi? È un muro. Non avevo mai visti altri da così vicino. Forse sì. Ma non erano come questo”. Questa è riflessione, non è prosa. Quello che convince il lettore è l’empatia che il protagonista gli trasmette.
Dentro termina con un frase emblematica. “Non è vero che si cresce lentamente e armoniosamente, si cresce tutto insieme. In un giorno. In un’ora. Questa è la storia”. Quanto conta l’infanzia nella formazione di ognuno di noi?
Secondo me, l’infanzia conta tanto quando è brutta. Quando è povera di affetti, piena di stenti, allora l’infanzia viene ricordata da chi l’ha vissuta. Credo che sia bello considerarla come quell’età di cui, in fondo, non ti ricordi niente. Io ho avuto un’infanzia serena e fe-lice, della quale mi ricordo un insieme di felicità, serenità e luce. Ciò significa che non ci sono state ferite ed episodi negativi. La percezione di sé e la concezione della coscienza sono cose che, durante l’infanzia, non si conoscono nemmeno. Noi viviamo nella matu-rità una reale metamorfosi, per la quale il protagonista afferma che l’infanzia è l’unico momento della vita in cui non siamo la stessa persona. Questo è dovuto alla fisiologia: durante la crescita, nell’individuo avviene un rinnovamento cellulare. Perciò l’infanzia rimane un’età dell’oro, in cui non si è dominati da sovrastrutture.
Scena padre è un libro in uscita per “Einaudi” in cui molti autori appartenenti a questa casa editrice, tra cui lei, raccontano il ruolo del padre all’interno della società. La funzione del racconto nella letteratura, in seguito all’assegnazione del Premio Nobel alla canadese Alice Munro, “maestra del racconto breve contem-poraneo”, ha avuto un’immediata rivoluzione. Anche le tre parti che compongo-no Dentro possono essere considerate racconti autonomi. Quale importanza dà al racconto breve?
Il racconto breve non è molto popolare in Italia e ammetto che questa cosa è strana, perché noi italiani abbiamo una grande tradizione di racconti. Non si dimentichino le novelle di Verga, Pirandello, Calvino, Fenoglio, Gadda, Landolfi e Chiara. Alice Munro è una narratrice gigantesca. Credo che il racconto nelle singole società letterarie dei Paesi viva delle stagioni. Probabilmente, da noi è un po’ passato di moda. In America e negli Stati anglofoni evidentemente no. Anche l’Italia, però, ha avuto una stagione di racconti. Non dimentichiamocelo.
Quali libri non potrebbero mai mancare nella sua personale biblioteca?
Io non sono un grande lettore, sono un lettore fra il medio e il mediocre. Sono un conti-nentale, figlio del romanzo europeo: perciò leggo gli autori europei. Leggo i classici del Novecento: Proust, Joyce, Svevo e i classici russi. Mi appassionano la filosofia e i libri di filosofia. Leggo i libri dove la prosa è a sostegno del pensiero.
Quali sono i suoi prossimi progetti? Sta già scrivendo il suo secondo romanzo?
Se non subentrano imprevisti, faremo un romanzo.
Jacopo Giraudo