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News e Appuntamenti

Intervista ad Andrea Molesini

10.12.2011

Con il suo libro Non tutti i bastardi sono di Vienna (Sellerio 2010) Andrea Molesini ha vinto il Premio Città di Cuneo per il Primo Romanzo. L’autore interverrà a Cuneo in occasione della XIII edizione di Scrittorincittà.

 

Lei ha tradotto autori americani. Il libro mi ha a tratti evocato le descrizioni di Hemingway. Quanto Hemingway c’è nel suo romanzo?

Poco o niente, direi. Se ci sono analogie sono del tutto casuali, ho letto Addio alle armi da ragazzo, più di trent’anni fa. Semmai, ad essermi entrata dentro è la tecnica del dialogo secco inserito in un fiume narrativo ad alto contenuto emotivo: quello è Hemingway, certo. Ma ci sono altri modelli che sento più vicini: il Simenon di La neve era sporca, per dirne uno.

Leggendo il libro, una sensazione mi ha pervasa spesso: la paura del nemico, come se mi sentissi braccata, come se dietro ogni pagina fosse appostato un cecchino. Riflettendo su questa sensazione, e sul fatto che provo questa sensazione anche in alcuni attimi di questo nostro tempo di pace, mi sono chiesta e Le chiedo: chi è il nemico oggi? chi è il cecchino che si apposta negli angoli delle nostre strade di oggi o negli angoli della nostra mente?

Forse la nostra consapevolezza (mai dichiarata, credo, per questione di scaramanzia) di essere alla fine di un’epoca di privilegio. Nella tarda primavera del 1914 nessuno o quasi presagiva che il suicidio dell’Europa, l’immane carneficina che avrebbe travolto tutti gli imperi coloniali, anche quelli usciti vincitori dal conflitto, era alle viste. L’eterno nemico della convivenza libera e civile è la stupidità – che, al contrario dell’intelligenza, è una forza che non conosce limite né confini. E la stupidità si annida nell’egoismo di tutti e di ciascuno. Un romanzo storico-esistenziale è anche un atto divinatorio, una divinazione rivolta al passato, a quelle cose del passato che rimangono sconosciute.

 

Il giovane Paolo si forma durante la guerra e grazie alla guerra: nella seconda parte del libro ha raggiunto una coscienza matura e riesce a impegnarsi in prima persona per sconfiggere il nemico. Come i partigiani delle valli cuneesi dopo l’8 settembre. Che cos’è che forma i giovani, oggi? Sembrano non esserci stimoli, come una guerra, così violenti da indurre alla ribellione. Tutto è più subdolo, e tutto abitua i giovani alla rassegnazione e al qualunquismo. Che ne pensa?

Sono d’accordo. Ma bisogna stare attenti, desiderare una guerra per redimere il mondo dall’apatia è da pazzi. La guerra è morte e distruzione, un fiume di dolore inarrestabile, e non è vero che da una guerra esca un mondo migliore: è accaduto nel 1945, ma solo per una parte dell’Europa, e solo perché i nuovi colonizzatori, gli Stati Uniti d’America, erano di indole generosa ed esportarono istituzioni liberali, essendo interessati al commercio florido più che al dominio politico-militare, ma credo si tratti di un’eccezione. Dopo le guerre ci sono solo miseria e ingiustizia, e durano a lungo. Di piani Marshall, nella sua lunga storia, l’umanità ne ricorda ben pochi. Comunque una cosa resta vera: Zeus donò ai Greci infiniti lutti sotto le mura di Troia perché ci fosse materia di canto, perché avessero qualcosa da raccontare presso i fuochi. Noi, da sempre, raccontiamo la guerra, perfino le storie d’amore che tramandiamo sono quelle di Giulietta e Romeo e di Anna Karenina.

 

Il rapporto con Dio: nel romanzo emerge rabbia verso l’Altissimo, lo si considera indifferente e inutile di fronte alla tragedia umana. Questo atteggiamento mi fa fare un salto alla seconda guerra mondiale, agli ebrei e al “Dio che è morto”, ma anche a Edith Stein o Simone Weil che attraversarono l’inferno senza mai perdere la fede, o a teologi come Bonhoeffer che, in attesa dell’esecuzione, mai si rivolsero dubbiosi o increduli al Padre. Leggendo il libro non ho potuto fare a meno di interrogarmi sul rapporto che Lei ha con la fede.

Non sono d’accordo, in Non tutti i bastardi sono di Vienna non c’è, mai, rabbia verso l’Altissimo. È un atteggiamento che non mi appartiene e che nessun personaggio uscito dalla mia immaginazione potrebbe incarnare. Nel mio romanzo ci sono diverse posizioni di fronte alla fede: c’è il nonno mangiapreti e c’è l’agente segreto (probabilmente massone), c’è la zia che crede più nella Chiesa che in Dio e c’è un parroco animato da una fede contadina, terra terra, ma non rassegnata, c’è al limite una certa indifferenza nella nonna matematica, che appaga nel miracolo della danza dei numeri la sua fame di eternità, di bellezza, c’è la cuoca che nel suo intercalare associa il diavolo all’acqua santa (diambarne de l’ostia), incarnando così una forma di fede primitiva ma non senza valore umano, e c’è la voce narrante, quella di un ragazzo che affronta il mondo con il piglio del rapinatore, mai con il fare del questuante; non si sa se crede o no, lui osserva la fede negli altri, la guarda con scetticismo, incantato com’è dallo sguardo all’apparenza cinico del nonno e da quello di Renato… La commedia umana è fatta di questo. Ricordo che Martin Buber da qualche parte ha scritto che nessuno può dire se Dio esiste o no, è una domanda mal posta: alcuni uomini, pochi o tanti non so, amano una qualche immagine di Dio, ne hanno una qualche idea, questo amore è un agire, e il mondo è tutto ciò che accade.

 

Per le sue descrizioni altamente evocative, per le atmosfere che sembrano delle vere sceneggiature, il libro ben si presta a diventare un film. Le piacerebbe? Diretto e interpretato da chi?

Mi piacerebbe, certo. Però l’idea mi fa anche un po’ paura, perché quando un libro diventa un film poi il libro difficilmente viene letto allo stesso modo. Ci sono molti registi in gamba, io amo particolarmente Giorgio Diritti, Il vento fa il suo giro e L’uomo che verrà.

 

Ha vinto il Campiello, il Comisso e il Premio Città di Cuneo. Non si possono mettere sullo stesso piano, ma, in tutta sincerità, che cosa Le suscita essere in procinto di venire a Cuneo a ritirare il premio?

Un grande piacere, e un senso di gratitudine.

 

intervista di Laura Conforti